Luciano Vanni, direttore di Jazz It e ideatore della prima Jazz Expo Italiana, è una persona con una visione sul settore jazzistico a dir poco geniale e che io condivido pienamente. Risponde su Facebook a un musicista in relazione ad un argomento che sta rimbalzando parecchio in questi giorni per via dell’imminente Expo di Collescipoli, (27-28-29 Giugno) in merito al ‘suonare o fare qualcosa gratis’ e quello che ne consegue. Come sempre Luciano usa le parole giuste, messe in fila nell’ordine corretto, una dopo l’altra misurate come solo un bravissimo e rispettabilissimo uomo di cultura, quale è, sa fare. Vi prego di leggere tutto molto attentamente, per capire meglio come funziona JAZZITFEST e soprattutto per comprendere il messaggio e la grande svolta innovativa che questa manifestazione porta con se. Anche io come Romalive sarò a Collescipoli e ringrazio Vanni per aver pensato anche a noi, blogger ed editor, che da anni dietro le quinte ci occupiamo di portare avanti il grande messaggio umano che il jazz rappresenta.
✔ DIALOGO SUL FARE MUSICA CON UN MUSICISTA > #JazzitFest
Nella pagina facebook privata del pianista Carlo Morena, come risposta a un suo post di partecipazione e adesione ai valori del Jazzit Fest-Italian Jazz Expo, c’è stata questa risposta dal collega musicista Giuseppe D’Alessandro: “Sarebbe piaciuto anche a me. Ma non posso perdere del lavoro per suonare gratis… dolori da freelance. E’ una formula che non mi piace.”
Si tratta – per fortuna quest’anno decisamente meno che in passato – di una considerazione che ogni tanto riemerge tra i musicisti italiani di jazz e allora, come faccio sempre, dedico tempo e attenzione a rispondere: non tanto per difendermi o per dire una verità (ciascuno ha ovviamente le sua), ma per esprimere un mio personale punto di vista. Si tratta di un post abbastanza lungo. Lo pubblico in tre parti anche sulla mia pagina perché si tratta di un ragionamento che potrebbe interessare collettivamente.
( I )
Innanzitutto grazie per la tua preziosa attenzione caro Giuseppe. Provo a rispondere al tuo “Sarebbe piaciuto anche a me. Ma non posso perdere del lavoro per suonare gratis … dolori da freelance. E’ una formula che non mi piace”. Certo, sarebbe meglio parlarne con calma, davanti a un buon bicchiere di vino, perché il JAZZIT FEST-ITALIAN JAZZ EXPO è un qualche cosa di importante e difficile da raccontare e spiegare in poche righe. Ma le tue parole, e quindi il tuo pensiero, si focalizza su “SUONARE GRATIS … E’ UNA FORMULA CHE NON MI PIACE”; capisco quindi che non sono passati i valori di fondo, il senso profondo del tutto, e quindi mi concentrerò proprio sull’aspetto del SUONARE GRATIS, che ti fa dire “E’ UNA FORMULA CHE NON MI PIACE”.
Partiamo dalla definizione di PROFESSIONISTA e DILETTANTE: la differenza sta non tanto nella qualità espressa dal singolo ma nel fare un’attività per lavoro o per diletto. Chi fa un’attività per lavoro deve concentrare la sue iniziative sulla qualità e sulla tecnica ma anche sulla sua emancipazione professionale, così da allargare il suo mercato di riferimento e quindi le sue opportunità finanziarie; e questo vale per tutti i professionisti di qualsiasi settore ed è il capitolo 1 di qualsiasi volume didattico di Macroeconomia. Un professionista vive della sua capacità di interazione con imprese, mercato e consumatori. Che si tratti di musica o di siderurgia è la stessa cosa: un musicista “vende” la sua musica a promoter, agenzie di booking, direttori artistici, fan e produttori discografici e un imprenditore siderurgico le sue componenti meccaniche a buyer, distributori, etc.
Ma “fare musica” per professione è una pratica diversa dalle altre categorie merceologiche, e allora parliamone distintamente. E’ chiaro che la fortuna economica di un musicista si poggia – oltreché sulla sua capacità tecnica, sulla sua espressione e sulla sua fantasia – sul suo comportamento e sulla sua capacità di costruire la propria carriera artistica, ovvero sulla sua capacità di aggregare attorno a sé l’interesse di altri colleghi (italiani e internazionali), pubblico (italiano e internazionale), media (italiano e internazionale) e player del music business (italiano e internazionale). Oggigiorno, come sempre del resto, essere bravi non basta: le opportunità professionali non vanno addosso ai musicisti e devono essere i musicisti stessi a volerle e a fav orirle, almeno fin quando il suo nome non ha raggiunto una certa popolarità e quindi celebrità. Occorre quindi che un musicista inizi ad applicarsi non solo sullo studio e sulla tecnica (e anche sull’aggiornamento espressivo che si deve consumare ascoltando i colleghi dal vivo, leggendo riviste specializzate, acquistando cd, etc) – pratica che comunque dovrà necessariamente continuare fino alla fine dei suoi giorni – ma anche su di un self management 3.0.
Proprio in virtù di queste considerazioni, assolutamente personali e quindi discutibili, ho fatto la radiografia dei difetti sistemici che caratterizzano il mercato tutto del jazz italiano:
1. autoreferenzialità dei musicisti e degli addetti ai lavori
2. mancanza di senso di comunità nazionale: non ci si sente “sistema jazzistico nazionale” (e quindi industria) quanto un agglomerato indistinto di entità spesso in conflittualità tra loro o peggio ancora satelliti periferici nel disinteresse diffuso
3. bassa attitudine a fare parte di una rete nazionale di professionisti di settore (e non parlo delle tante associazioni su scala cittadina, provinciale, regionale e nazionale che si uniscono per fare pressioni politiche e ricevere più contributi pubblici)
4. assenza di un expo di settore, di una borsa di settore e di music business: un luogo, uno spazio, una data dove ogni anno ci si incontra per conoscersi, ascoltarsi, ri-vedersi, apprendere nuove cose, aggiornarsi, fare rete nazionale e internazionale, discutere, criticare, esporre, etc etc
5. poca conoscenza tra operatori del settore: chi fa jazz ad Aosta non conosce i simili di Ancona, Terni, Vicenza, Bari, Napoli e Catania, etc
6. poche opportunità, per i musicisti, più o meno giovani, di far ascoltare “il nuovo”, “l’inedito”, la sperimentazione a un pubblico di operatori del settore che poi dovranno acquistarli: c’è la tendenza a suonare diffusamente in un perimetro geografico ridotto, tangenziale alle altre regioni d’Italia e del mondo
7. una diffusa pigrizia da parte di giornalisti, produttori discografici, manager, promoter, proprietari di jazz club e direttori artistici che non sentono la necessità di ascoltare e confrontarsi (e quindi investire, economicamente e intellettualmente) sul nuovo e sul diverso, sull’up-to-date
8. incapacità per tutti i player del jazz italiano di una certa propensione al mercato internazionale
9. mancanza di relazione – in molti casi – con il mondo della musica pop, elettronica, classica, sinfonica, folk e quindi un certo isolazionismo con il music business musicale tout court; e mancanza di contatto e relazione con il mondo dell’imprenditoria, della finanza, dell’industria, dei liberi professionisti, ovvero tutte quelle categorie della società civile che potrebbero sostenere e finanziare il jazz e la cultura in genere
10. mancanza di aggiornamento professionale su temi quali download, streaming, crowdfunding, siae, iva, ex enpals, etc etc
( II )
Da qua l’idea di spendere la mia “moral persuasion” di editore e direttore di JAZZIT (che è in quotidiano contatto con musicisti, manager, discografici, promoter, festival, jazz club, scuole di musica, fonici, etc) per fare – tra mille limiti e mille carenze, tra errori e ingenuità – tutto ciò che a mio avviso servirà per dare una risposta a questi dieci punti. Questo è il JAZZIT FEST-ITALIAN JAZZ EXPO, tutto qua: niente di più e niente di meno. Di certo, non è un festival, perché non ci sono concerti ma showcase di 30 minuti e non è un palco vittima appannaggio di “musicisti locali” o di starismo. Se vuoi ti mando il nostro “Codice Etico – Carta dei valori” e il nostro manifesto progettuale, così che potrai verificare tu stesso ciò che dico.
Comunque sia, essere professionisti significa a mio avviso fare i professionisti e quindi diventare professionisti. E non penso che suonare a 30€/50€ sia da considerarsi più da professionisti di chi decide di fare uno showcase di 30 minuti (al Jazzit Fest-Italian Jazz Expo NON CI SONO CONCERTI) per far ascoltare la propria musica e le proprie idee a oltre 150 addetti ai lavori che vengono da tutta Italia e da tutto il mondo (questanno saranno da noi, tra i tantissimi, anche Michael Cuscuna, Blue Note Records e Mosaic Records, e David Schroeder, New York University). Vado sul personale. Il sottoscritto omaggia regolarmente oltre 600 copie di JAZZIT ogni numero e non per questo mi sento dilettante; anzi, proprio per questo mi sento professionista, perché omaggio per creare nuovo pubblico e nuove opportunità di business e di rete. E quando un jazz club o un festival mi chiama per presentare al loro pubblico la mia attività e le mie riviste io lo ringrazio profumatamente e vado a mie spese senza nulla pretendere: perché si tratta di promozione e opportunità di entrare in contatto con un nuovo pubblico ipoteticamente interessato alla mia attività professionale.
Investire in promozione, fare attività gratuita è parte integrante della costruzione della propria carriera artistica e imprenditoriale. Ti faccio un esempio: se ti chiamasse Webnotte/Repubblica, ovvero Assante e Castaldo (e te lo dico perché sono amici e con loro ho iniziato a collaborare … gratuitamente;-) per esibirti in streaming davanti a migliaia di persone, chiederesti un rimborso spese e un cachet? Ecco, loro non offrono cachet, tantomeno vitto e alloggio. E se tu facessi a loro la stessa osservazione che fai fatto a me per il Jazzit Fest-Italian Jazz Expo, loro direbbero “avanti un altro” e tu perderesti una buona opportunità di promozione, non credi?
Il sottoscritto, direttore ed editore di JAZZIT produce il JAZZIT FEST-ITALIAN JAZZ EXPO a sue spese e senza reti e sostegni: senza contributi pubblici e senza biglietto d’ingresso, e per adesso senza sponsor privati. E a mie spese ospito, vitto e alloggio, tutti e 350 musicisti e offro loro un buon palco e un buon backline per metterli nelle migliori condizioni di esprimersi davanti a un pubblico desideroso del “NUOVO e DIVERSO”, appassionati e soprattutto addetti ai lavori, italiani e non. Questo pensi non sia un valore da rispettare? Vorrei, poi, che fosse chiaro che il sottoscritto non ha chiamato alcun musicista: sono stati i musicisti a candidarsi e a presentarmi di loro iniziativa un progetto musicale che ho valutato e selezionato.
L’ho fatta lunga. E potrei continuare a lungo. Sono a tua disposizione, caro Giuseppe. E ne approfitto per invitarti a frequentare almeno un giorno il JAZZIT FEST-ITALIAN JAZZ EXPO, così da verificarne contenuti e prassi; ti invito a partecipare ovviamente senza strumento, ma da musicista attento osservatore; così magari, di ritorno a casa, potrai continuare a pensarla come prima o magari comprenderne, e me lo auspico, il valore; comunque sia ti faresti una opinione personale sulla conoscenza della cosa.
Luciano Vanni
( III )
PS: Due brevi considerazioni sulla mia personale idea dei “Contributi pubblici alla cultura” e quindi sul perché ho deciso, di mia iniziativa, di evitarli. Qua si potrebbe aprire una vasta discussione, anche perché ci sto scrivendo un piccolo libro a riguardo, ma la faccio breve: penso che la cultura sia parte del welfare di uno Stato civile (come la sanità l’istruzione, etc), ma vorrei fosse chiaro che finanziare la cultura (dal latino “còlere”, che significa coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione) significa dedicare primaria attenzione alla formazione, all’educazione e alla emancipazione di una sensibilità e gusto collettivo; significa fare progetti di educazione alla musica di qualità in tutti gli ordini e gradi delle scuole obbligatorie, significa far passare obbligatoriamente su tutti i media statali una programmazione musicale d’eccellenza e significa fondare in ogni paese, borgo, città e circoscrizione di metropoli delle “Scuole Civiche della Cultura e della Musica” così da diffondere alle nuove generazioni il gusto e la sensibilità al bello e al giusto.
Ecco perché ritengo che i contributi pubblici alla cultura non dovrebbero essere erogati per finanziare l’attività concertistica dal vivo: perché lo spettacolo, che deriva dal latino “spectaculum”, guardare e assistere), dovrebbe giocare la sua partita sul mercato e quindi sull’investimento diretto del cittadino pagante che lo Stato ha contribuito ha formare, valorizzare e istruire anche sulla musica di qualità.
E allora, tutti assieme, faremo pressioni sulla politica nazionale non tanto per chiedere più contributi pubblici alla musica dal vivo (festival, associazioni, rassegne, etc) ma per sostegni “orizzontali” (diretti quindi a tutti e non a una lobby o a pochi) sul fronte iva, inps, taxcredit, 5×1000, licenze, autorizzazioni, patrocini, concessioni gratuiti di spazi pubblici.
Sono stato nominato in questo articolo senza essere stato interpellato. In generale non sono contrario alla diffusione di un mio dialogo privato con il pianista Carlo Morena, visto che offre l’occasione di fare un po’ di sana informazione su una tematica certamente importante, ma siccome è stato riportato per intero l’intervento di Luciano Vanni gradirei che venisse fatto così anche per la mia risposta a Vanni stesso, visto che quella semplice frase “Non mi piace questa formula” non spiega affatto il senso del complesso ragionamento che sta alla base delle mie idee.
Giuseppe, non avevo visto il commento. Innanzi tutto è possibile continuare la ‘discussione’ rispondendo direttamente qui. Io ho preso il tutto da un post pubblicato su FB, che appunto era già di dominio pubblico. Quindi, mi sembra giusto pubblicare anche la sua risposta e se per lei va bene, la scrive come commento qui oppure me la puo’ inviare via mail e sarà mia cura pubblicarla immediatamente in relazione a questo post. cristiana.piraino@gmail.com